di Benvenuto Caminiti
Sono alle prese da una settimana con un’influenza aggressiva che, oltre alle vie respiratorie, intacca anche stomaco e sistema nervoso. Febbre, nausea, vomito, gola che brucia come la gola dell’inferno così che non posso deglutire neanche l’acqua e conseguente digiuno assoluto.
E poi lo sapete bene che quando uno sta male il tempo… si ferma e diventa il tuo aguzzino peggiore; tu speri che passi e si porti via i malanni e invece ….
Dice Cettina: “Guardati la tv e così ti distrai, meno pensi meno senti il dolore…”… Sciocchezze: sto a letto perché non riesco a mettermi all’in piedi , la tv è sempre accesa ma ho la testa che mi scoppia e il suo gracchiare aggrava la situazione.
Ma oggi è l’Epifania, che tutte le feste si porta via: è l’unica frase che capto e mi rintrona nel cervello… “Oggi è l’Epifania che tutte le feste si porta via”… Ancora con questa lagna? E ho come un moto di ribellione, uno scatto, sembra il rush di un ciclista sulla fettuccia d’arrivo. Impreco, mi tiro su, lo sforzo sembra titanico ma ci riesco e subito spengo la tv e all’istante, come un segno celeste, un ricordo sopraggiunge a salvare le mie povere ossa in deliquio: “Era l’Epifania del ’49 la prima volta che entrai allo Stadio!”.
Mancava qualche giorno al mio ottavo anno di età e da tempo tallonavo mio fratello Vladimiro, il mio mito, il mio totem: lo supplicavo pure di portarmi allo Stadio ma lui rifiutava sempre con la stessa insulsa (almeno per quel ragazzino ribelle e sfrontato che ero) spiegazione: “Benni, non posso portarti allo stadio per due ragioni: la prima che io ci vado per lavorare e l’altra che lo Stadio è un posto pericoloso per un bambino della tua età!”.
Ho amato alla follia mio fratello Vladimiro e continuo ad amarlo cercando sempre di onorarne la memoria ma quando gli sentivo dire queste cose, credetemi, lo odiavo. Sì, odiavo , come si odia a otto anni, una bufera che scompiglia i capelli e poi non lascia tracce dietro di sé.
Mi struggevo da mesi ma quel pomeriggio dell’Epifania del ’49 lo vidi uscire che mancava più di un’ora all’inizio della partita, Palermo-Torino. Sì, il grande Torino, quello di Mazzola, Bacigalupo, Gabetto, Menti, Maroso e tutti gli altri supercampioni granata.
La giornata era terribile, pioveva a dirotto e faceva un freddo cane e lui, Vladi mi sgusciò da sotto gli occhi all’improvviso così che non ebbi neanche il tempo di infilarmi il cappottino e gli andai dietro così com’ero: calzoncini corti, gilecchino di tweed e giacchetta di lana.
Vladimiro aveva un passo micidiale per me, lui camminava e io per stargli dietro dovevo correre: il tutto, sotto la bufera e digrignando i denti per il freddo. Tutta la via Sampolo che in quegli anni del primo dopoguerra era un cumulo di sassi e polvere e la pioggia battente l’aveva trasformata in un acquitrino impraticabile. Ma io ero un ragazzino pugnace, se volevo una cosa la ottenevo, e quel pomeriggio avevo deciso che sarei entrato nel mio Stadio. Giunto all’altezza dei leoni dell’ingresso del Parco della Favorita, misi un piede in fallo e caddi dentro una pozzanghera. Mi rialzai subito temendo di perdere di vista mio fratello e per un attimo mi chiesi se non era il caso di rinunciare: ero praticamente scappato di casa e la mamma sicuramente mi stava cercando e il pensiero di lei disperata mi trafiggeva il cuore. Esitai, mi scrollai un po’ d’acqua dalla testa e ripresi buna lena: la strada ora era più larga e c’erano meno pozzanghere… Insomma, feci presto a cacciar via il cattivo pensiero della rinuncia e sentii forte battere il cuore, come avvertissi che presto, molto presto il mio sogno si sarebbe avverato. Infatti, dopo uno slargo, eccolo sulla destra lo Stadio: magnifico, maestoso, con quella tettoia bassa sull’ingresso principale. Ebbi come un sussulto di felicità, non sentivo più né il freddo che mi intirizziva né la pioggia che aveva inzuppato i miei abiti come fossero di spugna. Tallonai più da presso Vladimiro, ero la sua ombra, lui entrò esibendo una tessera e io cercai di intrufolarmi ma una manona brutale mi inchiodò terra: “Ehi, piccirè, unni stai iennu?”. Lo guardai, trasognato, senza dire una parola: era alto, un gigante.
“Sei con tuo padre?”, mi chiese e io, senza esitare, afferrai la mano di un signore che mi stava accanto.
“Stu picciriddu cu lei è, ah?”
“No, veramente unn’u canusciu!”.
L’omone mi spintonò e io, per la terza volta quel pomeriggio, mi rotolai sul fango. E per la terza voltami rialzai, mi guardai in giro e vidi un crocicchio di persone che sembravano in attesa. Scoppiai a piangere e dovetti farlo in maniera così plateale che un ragazzone sui vent’anni mi si avvicinò dicendomi: “Vo’ trasiri o stadio ma si sulu e senza bigliettu, è bieru?”. E io, mentre lo guardavo tra le venature delle lacrime che inondavano i miei occhi, feci cenno di sì:“Tranquillo, allora, dobbiamo aspettare. A venti minuti prima della fine aprono il cancello principale e trasiemu tutti!”… E arrivò il momento cruciale, vidi il cancello aprirsi che nemmeno quello di Apriti Sesamo delle Mille e una Notte e balzai come un levriero, dietro al mio nuovo amico. Che correva come una lepre e io faticavo a stargli dietro. Una volta dentro mi trovai davanti a certi scaloni così alti che per salirvi sopra dovevo usare gambe e braccia insieme…. Finché mi si spalancò davanti agli occhi lo spettacolo inenarrabile del terreno di gioco che pur non avendo più nulla del suo colori verde originari, pur sembrando nient’altro che una palude, per me era il paradiso in terra e m’inebriai gli occhi la mente il cuore… Solo che, piccolino com’ero, non vedevo nulla della partita: me lo impediva un’invalicabile parete umana. Mi feci coraggio e tirai per i pantaloni il mio nuovo amico: “Non vedo niente, mi ci metti sulle tue spalle?”. Detto, fatto e una volta lassù il cielo fosco lambito da lampi e la pioggia battente mi sembrarono carezze, così grande era la mia felicità: avevo davanti quelle maglie rosa che mi stregarono all’istante. Chiesi più volte: “Chi vince?”
“Il Torino, 2-0!”, risposero in un coro che pareva rassegnato.
Ma il calcio è bello perché sempre e comunque vi può succede di tutto. Infatti a dieci munti dalla fine segnò Milanie a cinque pareggiò Pavesi. L’urlo della folla ce l’ho ancora nelle orecchie e ancora mi riscalda il cuore quando ci penso. Perché se per la mia prima volta allo Stadio il Palermo pareggia una partita che sembrava persa contro la squadra più forte del mondo, ditemi voi se questo non è un segno divino. Come dire che non l’ho scelto io il Palermo come mia squadra del cuore ma è stato il Palermo, quel giorno dell’Epifania del ’49, a scegliere me.
Di questa partita me ne parlava spesso mio padre, buonanima. Mi raccontava come pioveva e la felicità loro al gol del pareggio di Pavesi, contro il grande Torino. Stadio stracolmo. Solo che mio padre aveva già sedici anni e mezzo. Era un gran tifoso del Palermo e lui ha passato a me questa grande passione per i ROSANERO. Forza PALERMO sempre.