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“Costretta a decidere chi poteva salvarsi”. La testimonianza di un medico in trincea

Coronavirus Bollettino

Il medico del Fatebenefratelli di Milano.
“Da una settimana il terremoto rallenta.
Lo spiraglio è che vediamo qualche letto libero ma chi parla di riaprire è tutto matto”
Claudia Gabiati resta in trincea.

«All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui a vivere nel terremoto che non smette di tremarti intorno, a essere frastornata dalle emergenze, a prendere una decisione al minuto, compresa la più terribile, chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte».
Inizia così l’articolo di Pino Corrias, su Repubblica, oggi in edicola.
Il racconto, la testimonianza di un medico davvero in trincea, Claudia Gabiati, 40 anni ed occhi verdi. E’ gastroenterologa, da 5 al Pronto Soccorso ed ora alla Covid Uniti dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano.
Dopo venti minuti di vestizione utili a immunizzarsi, indossare la doppia tuta, la cuffia, i calzari, la mascherina, gli occhiali, la visiera, i doppi guanti, entrerà nella zona rossa a respirare la stessa aria che respira il coronavirus.
Vi riportiamo alcuni passaggi dell’intervista che potete trovare integralmente su Repubblica, in edicola:
“Marzo è stato il mese più terribile della mia vita. Fronteggiavamo davvero l’invisibile. E l’invisibile ogni giorno, ogni notte, ci accerchiava di ammalati e morti. I letti di terapia intensiva non bastavano mai. .. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, obeso, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo. Non è facile come dirlo. Ti consulti coi colleghi, rifai cento volte i calcoli, ragioni, litighi. Ma alla fine decidi. .. Nel mondo di prima, ogni paziente aveva una moglie, figli, genitori, c’era un rapporto che faceva bene a tutti. Oggi sono soli. Catapultati dentro un mondo sconosciuto dove noi ci aggiriamo vestiti da astronauti, irriconoscibili. Ci guardano con gli occhi spalancati. Hanno paura. Una tremenda paura di non riuscire a fare il prossimo respiro. La loro paura ci contamina. La loro solitudine è la nostra…Il Covid è un virus velocissimo e cattivo. In tanti anni non ho mai visto infezioni polmonari così. Chi dice che è simile a tante altre influenze non sa di cosa sta parlando. .. l’infezione è una macchia di inchiostro che cade e si diffonde. Ho visto pazienti che respiravano con qualche affanno e dopo un’ora non ci riuscivano più, completamente desaturati, in pericolo di vita. Mai vista una instabilità del genere… La verità è che ancora oggi non sappiamo bene come curarli. Non sappiamo quale farmaco funziona e quale no. Quello che facciamo è supportare le loro funzioni vitali in corsa contro il tempo. Li facciamo respirare. Li idratiamo. Li nutriamo. E intanto proviamo con gli antivirali, gli antimalarici…Per questo è così importante la prevenzione, stare chiusi in casa, lavarsi, usare ogni cautela. Chi parla di riaprire tutto è matto.
«Da otto settimane dormo quattro ore per notte. Durante il turno non mangi, non bevi, parli a gesti e se devi fare pipì perdi mezzora a svestirti, lavarti, rivestirti, quindi te la tieni..Tutti noi del reparto abbiamo colleghi e amici morti, oppure in terapia. Penso che più o meno tutti siamo stati infettati. Io credo di essermi ammalata a metà marzo. E di essere guarita dopo certi dolori alla schiena. Il tampone dice che sono negativa. Ma quando ci sarà tempo di fare le analisi degli anticorpi, scoprirò se l’ho avuta oppure no… a casa Luca, mio marito, cucina tutti i giorni per me. Prepara pesci e torte. Un amore. Solo che da due mesi viviamo, respiriamo e mangiamo a un metro di distanza, dormiamo in letti separati. .. Ho visto al telegiornale che ci applaudono dai palazzi. Mi ha commosso. Vorrei tenere questi applausi per il futuro e spenderli quando al Pronto soccorso ci urleranno, ci insulteranno. Oppure quando i prossimi governi ci taglieranno i reparti, gli ospedali, i corsi di laurea. Specie qui in Lombardia, dove per anni tutto andava alla sanità privata e le briciole a quella pubblica.”

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