Settantuno anni fa un aereo di linea s’infilò come una spada di fuoco tra i nembi e i fulmini
del cielo sopra Superga, la collina che domina la città di Torino. L’aereo aveva preso il
volo da poco più di un’ora dall’aeroporto di Lisbona. Pilota e copilota, colti di
sorpresa per il sopraggiungere improvviso del temporale, tentarono invano un atterraggio
di fortuna.
A bordo c’erano tutti e gli undici campioni del “Toro”, c’erano le riserve, c’era l’allenatore e
c’erano anche alcuni giornalisti: tornavano tutti da Lisbona dove il “Toro” aveva disputato
una partita amichevole contro il Benfica.
Nello schianto del velivolo contro la base rocciosa della Basilica di Superga non ci furono
superstiti perché perirono tutti e il mondo da quel 4 maggio di settantuno anni fa piange la squadra di calcio più forte di tutti i tempi.
Io, per via della mia veneranda età, sono tra i pochi che può dire di averla vista, quella squadra meravigliosa, con i propri occhi: era l’Epifania del 1949 e io avevo otto anni da compiere da lì a qualche giorno.
Smaniavo da mesi di andare a vedere lo Stadio perché ci andava ogni domenica mio
fratello Vladimiro, dieci anni più grande di me, già cronista de “Il Sicilia del Popolo”, che
era la redazione siciliana de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano con sede e direzione a Roma.
“Vladimiro, mi ci porti allo Stadio?”.
“Non posso, lo stadio non è roba per te… Sei troppo piccolo ancora!…”.
Ma quella domenica di Epifania del ’49, anche se pioveva e tirava vento, io lo seguii quatto
quatto fino allo stadio: fu una faticaccia immane perché lui uscì all’improvviso ed io ero
solo in giacchetta di flanella e calzoncini corti. Insomma, mi gettai all’avventura, incurante
di pioggia e freddo.
Giunto allo stadio, finalmente alzai gli occhi fin lì tenuti bassi per scansare pozzanghere di
acqua e di fango…E lo vidi, finalmente lo vidi lo STADIO e ne fui quasi abbagliato anche
perché fulmini e saette lo schizzavano di lampi come a volermelo “descrivere” palmo a
palmo. Ma fu un attimo, quello giusto per vedere mio fratello infilarsi dentro il portone
centrale, davanti al quale, già bagnato fradicio dalla testa ai piedi, dovetti giocoforza
fermarmi. Un tipaccio mi bloccò con una manata, urlandomi: “E tu, picciré, runni vo’ iri,
ah?”.
Mi attaccai al braccio della persona più vicina e confidai nel buon Dio dei bambini.
“’Stu picciriddu cu lei è?”.
“No, iu unn’u canusciu!”.
E, per evitare la sberla del tipaccio, mi ritrassi scoppiando in lacrime: tanta fatica per
niente!
Ero disperato.
Mi guardai intorno, traverso il velo degli occhi inondati di pianto e vidi un gruppo al centro
della piazzuola antistadio. Mi ci gettai dentro, anche per trovar riparo sotto qualche
ombrello: “Veni ccà, piccirè, sinno ti pigghi ‘na primnunia!”, mi disse un ragazzotto alto e
forte che sembrava aver già pietà di me: “Vulievi trasiri senza bigliettu, è bieru?… Vabbè, un tinn’incarricari, poi rapunu u purtuni!”.
Parole dolci come il miele, mi accucciai al suo fianco e aspettai… Fu un’attesa straziante,
addolcita di tanto in tanto dagli urli e dai cori che arrivavano dagli spalti dello stadio…
Finché una mano santa non spalancò quel portone che fu come l’Apriti Sesamo delle
Mille e una notte. Il ragazzotto mi afferrò per mano e mi trascinò dentro: qui mi lasciò
urlandomi: “Catamiati, c anni viriemu l’urtimi vinti minuti ri partita!”. I gradoni erano così alti per me, che ero un nanetto, che dovetti scavalcarli a mani e piedi … E finalmente arrivai e fui subito schiaffeggiato da una zaffata d’aria gelata e dalla pioggia battente: davanti ai miei occhi incantati, una parete umana e nient’altro: era la massa dei tifosi, tutti in piedi per vedere gli ultimi scampoli di gara.
Mi sembrò l’ennesima beffa ma, come si sa, la disperazione aguzza l’ingegno: tirai per la giacca un “gigante” che mi stava davanti e con gli occhi lo supplicai di tirarmi su… E lui mi sollevò come un fuscello e mi sistemò sulle sue grandi spalle… Saranno state le maglie di un rosa ancora più rosa perché intrise d’acqua, certo è che un istante dopo io mi ero già perdutamente innamorato del Palermo. Che stava perdendo 2-0
dal grande Torino e che prima con Milani e poi con Pavesi raggiunse un insperato 2-2:
quale miglior messaggio di quel pareggio per capire che nel mio destino, da quella
domenica e per sempre nella vita, io non avrei amato che il Palermo?
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