La Guardia di finanza ha ricostruito le “spese pazze” dei fratelli Tuttolomondo finiti in carcere per bancarotta.
Gli ultimi soldi trafugati dalle casse del vecchio Palermo calcio sono finiti in pacchi di caffè, bollette del telefono e altre spese di una società di costruzioni. I fratelli Salvatore e Walter Tuttolomondo non hanno avuto alcuna remora mentre la barca andava giù verso il fallimento.
Questa l’apertura dell’articolo di Salvo Palazzolo sull’edizione online di Repubblica.
La ricostruzione delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza sulle spese dei fratelli Tuttolomondo, in carcere da mercoledì. Gli ultimi soldi in cassa, 341 mila euro, sono finiti a “Struttura srl” per poi transitare o attraverso prelevamenti in contante nelle tasche dei Tuttolomondo oppure “sui conti della Dae Costruzioni e dell’Immobiliare Ponte di Nona e da lì sono andati nelle tasche degli indagati e dei loro familiari, o per coprire i debiti delle due società”, scrivono i finanzieri.
Una parte sarebbe anche finita ad uno studio di consulenza con lo scopo di ripulire i soldi distratti dalla società: tutto ciò emerge anche grazie alle intercettazioni disposte dal procuratore aggiunto Salvo De Luca e dai sostituti Dario Scaletta e Andrea Fusco.
Per trafugare gli ultimi soldi i Tuttolomondo misero in scena la consulenza di Struttura srl che avrebbe dovuto gestire il concordato fallimentare, un concordato, scrivono gli inquirenti, senza nessuna speranza di essere accolto. In questo modo hanno evitato la nomina di un curatore fallimentare che li avrebbe spogliati di qualsiasi potere decisionale. Ed in questo intervallo di tempo i fratelli hanno messo in atto le loro condotte predatorie.
Il “puparo”, come lo chiamano i pubblici ministeri, era Salvatore Tuttolomondo, “che non rivestiva e non riveste alcun incarico formale – recita il capo d’accusa – nelle società della galassia Arkus, ma ne controlla di fatto tutte le società”. E “Struttura srl” non era altro che l’ennesima scatola cinese creata dai due faccendieri. “Ricordati di fargli mettere l’insegna fuori dalla porta”, dicevano al telefono, scrive Palazzolo in conclusione di articolo.
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