Viviana Bonura è una giovanissima fotografa palermitana, studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. Racconta storie intime, emotivamente forti. Le descrive con un tratto personale, riconoscibile. Intervistarla è stato un grande piacere.
Il tuo occhio ha un’evidente caratura artistica. In particolare, riconosco una firma d’autore nelle tue immagini, spesso accompagnate da dolcissime poesie. Poesie d’amore non per il prossimo, ma per l’essenza della fotografia, che credo tu abbia pienamente inquadrato. Mi piacerebbe chiederti qual è innanzitutto il motivo inconscio che ti spinge a fotografare e che credi rimanga nelle tue immagini, impresso nei silenziosi meandri del sottotesto.
“Ultimamente ho cominciato a ripetermi che la mia fotografia è una questione di identità. Non so ancora precisamente cosa voglia dire, perché ciò che mi muove a fotografare è molto inconscio, però ho l’impressione che ogni volta io riesca a capirne di più il senso. Molte volte ciò che faccio sta nel gesto, nell’atto, quindi mi chiedo come si imprime nella fotografia qualcosa che va oltre l’immagine, se quello che importa non è quello che vedi, ma quello che significa.
Una parte molto importante del mio lavoro si focalizza sull’autoritratto e per me è una terapia, è il mio modo per reclamare quello che sento e lo spazio che occupo, per sentirmi appartenere alle mie emozioni che molto spesso se non vengono interrogate attraverso il canale artistico mi sembrano rimanere bloccate o rifiutate. Quando faccio una foto e mi sento scomoda allora so che sto facendo la cosa giusta, perché lasciarsi attraversare, lasciarsi sentire da sé stessi e dagli altri, è molto spesso una cosa scomoda, ma è il mio modo per sentirmi meno impotente e per prendermi cura di me.
Quello che mi spinge a fotografare è il desiderio di esplorare me stessa e lo spazio circostante, la mia relazione con l’altro, il delineamento ed il dissolvimento dei confini dell’essere umano. Quindi mi piace che molte cose rimangano codificate in un altro linguaggio, come se agissi un sogno attraverso nuovi simboli, così possono essere esplorati dagli altri a seconda delle loro proiezioni, esattamente come faccio io.
Quello che scrivo si muove esattamente sulla stessa linea, quindi è interessante che tu ci legga dentro l’amore. Ovviamente non ti dirò cosa ci leggo io, da cosa mi faccio suggestionare, a chi parlo o a cosa mi riferisco altrimenti ti priverei di qualcosa che ha preso vita propria e non è più solo mia nel momento in cui ho deciso di condividerla. Però molto spesso sono memorie, radici, legami a cui ho bisogno di ritornare perché è lì che trovo i simbolismi“.
La tua fotografia è impregnata di un bianco e nero forte, pesante, profondo. Qual è il percorso che le tue immagini affrontano per acquisire questa pastosità unica e già riconoscibile?
“Una delle caratteristiche estetiche più evidenti della mia fotografia è sicuramente il bianco e nero che per me ha un certo significato, motivo per il quale compio delle ricerche su come deve essere per corrispondere a ciò che voglio comunicare. Hai detto che è impregnata ed io mi ritrovo moltissimo in questa parola che hai usato. Il bianco e nero deve essere materico e deve avere una sua consistenza, deve far in modo che le luci e le ombre siano più solide dei corpi stessi che invece spesso sono sospesi e poco delineati. Il bianco e nero deve come rispondere a degli impulsi sensoriali: rispettivamente il primo deve bruciare ed accecare ed il secondo assorbire ed inghiottire.
E’ nel bianco e nero che ritrovo i coaguli incomunicabili e quelle allucinazioni surrealiste che rispondono al mio modo di sentire la fotografia. Se in tutto questo i corpi spesso sembrano dissolti ed impermanenti allora è la luce ed il buio che li attraversa. E’ un discorso che forse non ha molto senso se provo a spiegarlo e quando succede che io debba arrendermi alle parole mi ripeto qualcosa che mi serve per smettere di scavare e cercare risposte dove non ci sono, ovvero che certe cose non si possono parlare, bisogna per forza sentirle“.
Ho notato che ami affiancare la fotografia allo stopmotion, ampliando il tuo bacino creativo e i tuoi strumenti comunicativi. Perché preferisci raccontare certe storie con delle sequenze di immagini e non con una sola fotografia? Credi che certe storie necessitino di una sequenza, o che certi narratori concepiscono alcune storie in forme esclusivamente “cinematografiche”?
“Prima ti dicevo che molte volte ciò che faccio sta nel gesto e l’ho capito proprio quando sperimentando con lo stop motion ho sentito che era qualcosa che mi apparteneva. Quando faccio stop motion o animazione digitale gli aspetti performativi ed esplorativi del mio linguaggio sono più in evidenza, ma non lo faccio perché credo che certe storie necessitino di una sequenza, semplicemente è una scelta sul modo in cui raccontarle, ma credo sia il mio personale modo di intendere la cosa. Io non mi sento legata o limitata dalla fotografia perché non concepisco l’arte come una cosa binaria.
Bisogna pensarla come qualcosa di contaminato e di contaminante, dove l’artista non deve porsi vincoli nell’utilizzare più tecniche artistiche anche contemporaneamente. Non è il supporto, il materiale o la tecnica che definisce un artista. Almeno, quando io credevo lo fosse mi stavo solo nascondendo e non stavo sfruttando il mio potenziale“.
Il tuo percorso didattico inizia presso l’Accademia delle Belle Arti di Palermo, o ha avuto altri natali? Cosa consiglieresti ad un tuo coetaneo che si sta affacciando alla fotografia?
“Mi fa piacere questa sia la prossima domanda perché mi aiuta a spiegare meglio quello che ho detto prima. Il mio percorso con la fotografia inizia da autodidatta nel 2017 con la fotografia digitale, ma concettualmente ho iniziato due volte, e la seconda è stata nel 2018 con la fotografia analogica. Però venivo da cinque anni di Liceo Artistico con indirizzo Arti Figurative – quindi disegno, pittura e arti plastiche. Nel 2019 ho iniziato a studiare Graphic Design all’Accademia, quindi a livello didattico la fotografia è solo una parte del percorso, ma sento che il mio modo di scattare stia cambiando. Insomma, io ho sempre orbitato attorno agli studi artistici, ma non ho mai studiato “nel mio settore” ed ha funzionato. La conoscenza è trasversale ed è fondamentale farsi influenzare da cose diverse.
Non so se sono in grado di dare dei buoni consigli a chi vuole affacciarsi per la prima volta alla fotografia, per me ha funzionato la conoscenza trasversale, imparare la tecnica attraverso la storia piuttosto che sui manuali ed accettare di dover fare un grande lavoro di introspezione destinato a non finire mai per capire cosa e come raccontare. Non direi mai che studiare fotografia non serve, perché io adesso la studio in funzione di un percorso nel settore della grafica, ma tantissimi illustri fotografi sono autodidatti. E’ solo uno spunto per riflettere su cosa sia importante quando si vuole imparare a fare fotografia”.
La presenza femminile, nei tuoi contenuti, è costante. Già la celebre Letizia Battaglia ha, proprio nella nostra Palermo, arricchito il nostro lessico “fotografico” di storie femminili. Prendi ispirazione da qualcuno, o la scelta proviene da un motivo personale? Se si, quale? Credi che la donna abbia bisogno di mutare la propria immagine? Credi che la fotografia possa aiutare la Donna a migliorare la propria condizione nella società presente e futura?
“Mentre rispondevo alle tue domande mi venivano in mente tantissimi fotografi che mi sono d’ispirazione, da Francesca Woodman a Duane Michaels, ma anche artisti in generale, autori e filosofi come Marina Abramovic, Freud, Kafka o Schopenhauer. Anche la musica mi ispira tantissimo. Credo davvero nella conoscenza trasversale, nella non binarietà dell’arte e del risultato che può uscire fuori attraverso la propria sintesi personale. A volte le corrispondenze sono meno scontate di ciò che sembra. Si può parlare del femminile con grande appartenenza ed empatia senza essere donna, si può fotografare donne senza voler parlare per forza del femminile.
Io muto continuamente nei miei autoritratti e mutano pure le donne che fotografo, forse lo faccio anche per esplorare il mio modo di essere donna, ma è un discorso che sta dentro ad una motivazione più grande ovvero la ricerca dell’identità, del modo in cui esistere. Tutti abbiamo bisogno di metamorfosi per essere chi siamo veramente. Io lo faccio davanti ad una macchina fotografica”.
Mi permetto di affermare che la tua fotografia, nonostante abbia una forma artistica e narrativa, possa affacciarsi al mondo della moda. Riesci a dare peso agli indumenti e, contemporaneamente, alle emozioni dei soggetti fotografati. Ti piacerebbe vivere nel mondo
della moda? O preferisci un percorso d’esposizione? Cosa credi che Palermo debba fare per aiutare i giovani ad emergere in un mondo così complicato?
“La scelta dei vestiti è legata più ad un fatto scenico e perfomativo piuttosto che al mondo della moda. Certamente compio ricerche di natura estetica sulla scelta degli abiti, ma è tutto legato ad un immaginario narrativo ed identitario, come il resto della mia fotografia. L’abito e la pelle raccontano e alla base di ciò che credo c’è la convinzione che non possiamo smettere di manifestare fuori quello che abbiamo dentro.
L’abito è un elemento della storia, esattamente come non averlo, e non lo lascerei mai al caso oppure scelgo di farne a meno. Mi servo dell’abito per costruire il personaggio nella fotografia, il doppio della persona nella realtà, oppure per decontestualizzare il tempo ed il luogo dei miei scatti.
Molti vestiti che uso erano di altre persone, hanno vissuto altre vite, erano altre cose, per questo ti parlo di identità. Mi piace la moda ma non ne parlo più nella mia fotografia, per i miei lavori personali preferisco guardare alla fotografia d’autore, ma non mi tirerei indietro se si presentasse l’occasione di riprovarci con la moda dopo il percorso che ho fatto e che prima mi mancava. La tua ultima domanda è molto complicata e si potrebbe intendere in tanti modi, una piccola parte di ciò che penso è proprio che ai giovani bisognerebbe dare più occasioni per fare ciò in cui sono bravi, ma anche per sperimentarsi sotto nuove forme. Molti giovani non vivono in contesti che li stimolano a scoprire i propri talenti e le proprie preferenze“.
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