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William Lombardo: il racconto del set “La Particella Fantasma”

William Lombardo è un giovanissimo regista palermitano che, innamoratosi della misteriosa scomparsa di un genio della fisica, Ettore Majorana, ha deciso di imbastire un progetto cinematografico che ne racconti alcuni dettagli. 

Carissimo William,
inizio quest’intervista comunicandoti la grande emozione che provo nell’intervistarti. 

Per chi non lo sapesse, quest’intervista/dialogo sul cinema nasce proprio da due aspiranti registi, entrambi di origine palermitana ed operanti nel mondo dell’indipendente. Ho avuto il piacere di conoscere William durante la presentazione del suo progetto “La Particella Fantasma”, avvenuta nella sede del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo. 

William mi ha concesso l’opportunità di un dialogo che, da giovane a giovane, ha innescato tante energie positive. Mi ha trasmesso tanta conoscenza nel mondo dei cineasti, la speranza, la possibilità di fare cinema nonostante spesso possa sembrare tanto difficile. Adesso ho il piacere di condividere questa possibilità con tutti i nostri lettori. 

La tua figura è fatalmente legata, in questo momento, alla storia di Ettore Majorana e “La Particella Fantasma”. Hai dimostrato una grande dedizione nello studio del protagonista, della sua vita, di tutto ciò che lo riguarda. Raccontaci come è iniziato tutto. Cosa ha accesso la tua curiosità? 

La passione per la figura di Ettore Majorana risale agli anni del liceo quando l’insegnante di letteratura ci assegnò la lettura de “La Scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia. La “verità letteraria” di Sciascia scarta le tesi ufficiali del suicidio e della follia, propende per l’ipotesi che il giovane scienziato abbia organizzato la sua scomparsa “come una minuziosamente calcolata e arrischiata architettura”, per non collaborare all’avvenire distruttivo intravisto nelle ricerche atomiche. Nato nella Sicilia in cui “l’assenza se non il rifiuto della scienza era diventata forma di vita”, già l’essere scienziato doveva costituire una dissonanza di cui Majorana avvertiva l’angoscioso “peso di morte”. Si trattava di un modo assolutamente moderno di raccontare la figura di Ettore. Volendo saperne di più ho contattato prima via mail e poi telefonicamente il professor Erasmo Recami, ricercatore dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e biografo ufficiale di Ettore Majorana. Il professore gentilmente mi ha fornito un sacco di materiale cartaceo, anche inedito, che mi ha permesso di guardare la vicenda dello scienziato siciliano da un punto di vista inedito. Infatti, tra quelle carte vi erano parecchie testimonianze di Maria Majorana, la sorella più piccola di Ettore. Più leggevo le parole di questa ragazza sul suo rapporto col fratello più nella mia mente si andava formando un quadro chiaro di cosa sarebbe dovuto essere il mio film. Sempre grazie al professor Recami ebbi l’opportunità di entrare in contatto con uno dei nipoti diretti di Ettore, Fabio Majorana, figlio di Luciano. Fabio fu così gentile da invitarmi nella villa in cui Ettore, Maria e gli altri due fratelli erano cresciuti. Ogni singola stanza di quella villa è intrisa dei ricordi di questi ragazzi. Questo mi ha spinto a scrivere le prime bozze di soggetto e sceneggiatura che sono state la base su cui poi è stata costruita la stesura definitiva che ha visto la collaborazione anche di Gianni Cannizzo, il quale è stato anche produttore esecutivo e mio aiuto regista. 

Da laureando in fisica, invidio la possibilità che hai: raccontare con il cinema una storia di equazioni ed emozioni. Credi che esista un legame tra le due cose? E come hai voluto “cinematografare” questo rapporto? 

Il pubblico da quando esiste la settima arte ha sempre mostrato grande interesse per la figura dello scienziato tormentato e geniale, basti pensare a pellicole recenti come “The Imitation Game” o “La Teoria del Tutto”. Trovo che gli scienziati e gli artisti condividano molte cose, ci poniamo le stesse domande e sentiamo forte la necessità di comprendere la realtà che ci circonda. Ne “La Particella Fantasma” ho voluto lanciare delle suggestioni circa il lavoro di Ettore sul suo fermione, una particella che secondo Majorana è contemporaneamente la sua particella che la sua antiparticella, viva e morta contemporaneamente, in grado di viaggiare avanti e indietro nel tempo. Data la sua massa minima è difficile da rilevare e proprio per questo suo aspetto misterioso gli scienziati l’hanno definita “Particella Fantasma”. Una bella metafora per definire lo stesso Ettore Majorana, non trovi? 

Qual è stata l’entità del trasporto emotivo che hai subito nell’imbatterti in questa storia? Credi che siano solo gli attori ad interiorizzare il personaggio, o che siano prima di tutti lo sceneggiatore, e poi il regista, a subire una prima e forse anche violenta intromissione delle emozioni del personaggio? Se sì, ricordi qualche particolare momento in cui hai sentito queste emozioni diventare molto “invadenti” nella tua quotidianità? 

Il mio punto di contatto emotivo con Ettore è rappresentato dalla sua incredibile famiglia. Mi sento molto legato a quelle dinamiche che Ettore ha vissuto da bambino, specie nel rapporto con i fratelli. I registi e gli sceneggiatori necessitano di un trasporto emotivo che gli dia la scintilla per trasmettere agli attori prima in preparazione e poi sul set le emozioni che finiranno sullo schermo. Un regista deve nutrirsi quanto più possibile di emozioni e sensazioni altrimenti non potrebbe fare il suo lavoro. 

Ho scoperto, con qualche ricerca, che tu hai iniziato il progetto nel lontano 2016, se non vado errato. Oggi siamo nel 2021. Il lungo tempo che è trascorso sembra un’ottima base per dimostrare quanto ogni fase di questo cortometraggio sia stata attenzionata e vissuta a pieno. La tua dettagliata ricerca di informazioni e gestione delle stesse mi ricorda, in una versione ridimensionata e anche più moderna, il metodo di approccio al film di Stanley Kubrick. Ricordo il suo raccontare l’indagine circa la vita di Napoleone, le innumerevoli letture svolte prima di scrivere un soggetto. Raccontaci come hai suddiviso questo percorso e come ogni tappa ti abbia coinvolto. Raccontaci quanto il tempo e la quantità di informazioni abbiano influenzato la progettazione del tuo film. 

La necessità di un regista è quella di essere sempre in costante movimento. I tempi di realizzazione di un film sono mediamente molto lunghi, parliamo di anni dal momento in cui inizi a scrivere fino a che non batti il primo ciak… Un progetto ambizioso come “La Particella Fantasma” ha richiesto diversi anni di preparazione e di ricerca fondi. Nel 2016 ho scritto la prima stesura del soggetto e ho continuato a raffinarla fino alla notte che ha preceduto il primo giorno di riprese. Senza scomodare un mostro sacro come Kubrick, ogni regista quando si accinge a sviluppare un film fa un lungo lavoro di ricerca in modo da arricchire la sua visione e la sua conoscenza del mondo e dei personaggi che intende raccontare. Per quel che mi riguarda ho trascorso molto tempo a leggere i documenti fornitimi dalla famiglia Majorana e dal professor Recami, a leggere molti libri sulla fisica dei quanti e sui ragazzi di via Panisperna. Friedrich Dürrenmatt e Leonardo Sciascia sono stati gli autori che più mi hanno ispirato nella fase di scrittura ma non avrei potuto comprendere a fondo molti aspetti di Ettore e della sua famiglia se non avessi trascorso molto tempo a Villa Majorana. 

Quali sono state le scelte di regia che hai preso per questo cortometraggio? Hai preferito raccontare con movimenti di macchina evidenti o con immagini statiche? Perché hai scelto questo genere di regia? 

Sono cresciuto col cinema di Steven Spielberg e Alfred Hitchcock e questo ha influenzato profondamente la mia formazione registica. Ne “La Particella Fantasma” ho cercato di utilizzare un mix di movimenti di macchina e montaggio in modo da bilanciare ogni singolo momento e in questo senso il lavoro fatto dallo straordinario Matteo Santi, il montatore del film, è stato importantissimo. Visivamente la scelta delle lenti cade spesso su focali corte come il 10mm, il 18mm ed il 25mm. Non amo utilizzare focali lunghe perché mi sembra che appiattiscano l’immagine. Al direttore della fotografia, Gabriele De Palo, ho chiesto di aiutarmi a creare delle immagini il più possibile cinematografiche quindi immagini immersive che necessitavano di un grande quantità di luce e di un importante lavoro in scenografia. 

Come hai guidato i tuoi attori nella ricerca del personaggio? Quanto avete lavorato insieme prima delle riprese? 

Ho avuto la grande fortuna di poter scegliere personalmente gli attori del film. In questo senso va dato grande merito alle due produzioni, la Slinkset e l’Agidi, di essersi fidate di me e avermi permesso di selezionare i migliori attori possibili per questo progetto. I tempi e le risorse nel caso di un cortometraggio sono davvero ridotti e quindi non c’è molto tempo per lavorare con gli attori per questo è stato importante scegliere attori giovani ma con un importante filmografia alle spalle per i protagonisti e unirli ad attori navigati e affermati nei ruoli secondari. Ognuno degli attori, Denise Sardisco, Francesco La Mantia, Vincenzo Crivello, Giuseppe Spata, Vincenzo Pirrotta, Melino Imparato e Marco Feo, ha fatto un grande lavoro di studio e ricerca. Nonostante gli impegni di ognuno di loro su altri set o in teatro, sono stati tutti incredibilmente desiderosi di conoscere a fondo i rispettivi personaggi tanto da passare diverse ore al telefono per parlare anche del più minimo dettaglio, dal modo di parlare a quello di tenere in mano la sigaretta fino alla camminata. 

Sono state già rilasciate delle immagini del tuo corto. La gradinata delle poste di Via Roma, lo spin-off che ha catturato l’attenzione del tuo attuale produttore. La fotografia ha già dimostrato la qualità cinematografica che avete in casa. Qual è stato il segreto per raggiungerla? Quanto credi che la fotografia sia rilevante in un film? Qual è il tuo rapporto con la direzione della fotografia, e con il direttore della fotografia che hai scelto per questo progetto? A chi vi siete ispirati? 

La fotografia è una parte essenziale, è quello che permette al pubblico di assaporare immediatamente i toni e le atmosfere della storia. Gabriele De Palo è un giovane di grande talento con capacità tecniche e artistiche non comuni per un giovane. Quando discutevamo de La Particella Fantasma non mi parlava mai di film ma di quadri e pittori, De Chirico, Mario Sironi e Felice Casorati. E tutto quello che discutevamo andavamo riferendolo alla nostra scenografa, Laura Inglese, senza la quale non sarebbe stato possibile ottenere il look definitivo del film. Possiamo avere le migliori lenti e il miglior parco luci ma senza una buona scenografia è veramente difficile per il direttore della fotografia fare il proprio lavoro. Stesso discorso vale per i costumi del film, curati da Barbara Anselmo. I colori e i tessuti dei costumi e il modo in cui interagiranno con la scenografia rappresentano uninformazione importante per il direttore della fotografia e Barbara in questo senso ha fatto un lavoro pazzesco. Infine non si può non ricordare che il lavoro della fotografia ha potuto contare su una grande squadra di elettricisti e macchinisti guidata da Alessandro Caiuli e Mimmo Modica, due veterani del settore. Se c’è un segreto dietro il look del mio lavoro sta tutto nel dialogo continuo fra Laura, Barbara e Gabriele e i rispettivi reparti. 

Ricordo ancora, durante il nostro breve colloquio, un dialogo riguardo la qualità audio dello spin-off. L’audio spesso è un elemento che, dai neofiti, viene quasi dimenticato. Dove credi si nasconda la sottilissima linea che divide un lavoro professionale da uno amatoriale? Quanto l’audio gioca un ruolo in questa dinamica? 

L’audio può arrivare ad ucciderti un buon film o a elevarlo. Non è possibile trascurare il lavoro sul suono perché è uno degli strumenti al servizio del regista e della narrazione e se viene a mancare il pubblico seguirà con meno attenzione la tua storia. 

Non è assolutamente segreta la stima professionale che provi nei confronti di Denise Sardisco, una giovane attrice che sta catturando, lentamente, l’amore dei suoi spettatori. L’abbiamo già vista in uno splendido Martin Eden. Denise ha origini siciliane. Come è avvenuto il vostro incontro? Perché l’hai scelta? Com’è stato lavorare con lei? Come avete preparato il personaggio? 

Stavamo ancora cercando la nostra Maria Majorana quando Martin Eden venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Per tre giorni mi chiusi in sala per vedere la performance di Denise al fianco di Luca Marinelli e rimasi stregato dalla sua forte presenza scenica e dai suoi occhi così vivi e intensi. Sentivo di aver trovato la mia Maria Majorana e così inviai alla produzione un video contenente alcune scene di Martin Eden con Denise che avevo ripreso al cinema col cellulare e dopo un solo straordinario provino tutti ci trovammo d’accordo sul fatto che Denise sarebbe stata la nostra protagonista. Denise è un’attrice totalmente devota al suo lavoro e allo studio del personaggio e questo ha facilitato enormemente il mio lavoro sia in preparazione che sul set. Non si è mai limitata a leggere e studiare solo i materiali che le inviavo ma andava cercando anche da sola le interviste e i video di Maria Majorana. Denise è la Maria che ho sognato per ben tre anni della mia vita. 

Durante la presentazione al CSC, avete raccontato quanto i VFX avrebbero reso magico questo lavoro. Come avete lavorato alla loro realizzazione? Com’è stato interfacciarsi, durante le riprese, all’utilizzo di una sala di posa? In quale sala posa avete girato? Qual è stata la tua emozione nel girare in un luogo così? Quanto l’immaginazione gioca in momenti come questi? 

Il film per il 30% è composto da scene in VFX integrati con scenografie reali per rendere il tutto più omogeneo e fotorealistico. Gli effetti visivi sono curati dalla Metaphyx, una società più volte candidata al David di Donatello con a capo Luca Saviotti e Virginia Cefaly. Il loro team, composto da diversi siciliani, ha creato degli ottimi effetti visivi che ci hanno permesso di dar vita alla dimensione onirica in cui avvengono alcune delle scene più significative del film. Per motivi di budget non potevamo spostarci a Roma a girare in un vero teatro di posa così abbiamo utilizzato un capannone ad Isola delle femmine e lo abbiamo adattato a teatro di posa. Laura Inglese ha fatto un lavoro incredibile ricreando diversi elementi scenografici utili a permettere ad attori e troupe di comprendere sempre il contesto in cui ci muovevamo. Laura ha creato vari bozzetti utili a far comprendere a ogni singolo reparto il mondo che avevo descritto nella sceneggiatura e questo ha agevolato tantissimo il lavoro di pre e postproduzione. Lavorare col blue screen non è mai facile soprattutto per gli attori però i ragazzi dopo un iniziale disorientamento si sono immediatamente calati in quel mondo e si sono abbandonati all’immaginazione. Ho chiesto loro di tornare bambini e pensare nello stesso modo in cui i bambini immaginano che un divano sia una montagna da scalare o lo spazio fra due sedie sia un burrone da aggirare. 

Ho avuto il piacere di seguire i tuoi social e di notare il rapporto magnifico che hai stretto con il montatore del tuo film. Quanto tempo avete trascorso per montarlo? Quanto, rispetto alla tua idea originaria, è cambiato in sala di montaggio? Quanto credi sia essenziale, per un regista, prevedere il montaggio delle scene durante le riprese? 

Matteo Santi l’ho conosciuto con il film “Mine” di Fabio&Fabio che mi aveva colpito proprio per il lavoro di montaggio soprattutto nelle scene oniriche. Matteo è una persona speciale oltre che un grande artista e per me è a tutti gli effetti il co autore del film. Abbiamo iniziato il lavoro di montaggio prima che scoppiasse la pandemia per un totale di dieci giorni di lavoro. Dieci giorni fantastici perché Matteo è una macchina da guerra quando si siede in sala di montaggio. Il suo lavoro ha permesso di far emergere cose di cui non mi ero accorto mentre giravo e ha impresso la sua voce in diverse sequenze chiave del film rendendole migliori rispetto a quanto scritto in sceneggiatura. 

Uno dei più grandi nodi che il cinema indipendente deve affrontare è la questione distribuzione. Quando hai ricevuto la conferma da parte del tuo produttore della presa in carico del progetto, quante certezze avevate riguardo questo punto? Quanto il tuo produttore ha influito sulle scelte di distribuzione? Che immagine ti ha dato il mercato cinematografico italiano? Lo ritieni un terreno fertile? 

Il mercato dei cortometraggi da diversi anni ormai vede la presenza fissa dei distributori festivalieri, una risorsa importante perché nessun produttore può conoscere le centinaia di migliaia di festival in giro per il mondo. Serve qualcuno che si occupi di seguire a tempo pieno il film e di promuoverlo nel circuito festivaliero. Premiere Film in questo senso è il principale distributore sia nazionale che internazionale. Il mercato dei cortometraggi è un mercato strano dove non basta avere un buon prodotto per emergere ma servono tutta una serie di fattori che vanno dalla comunicazione social alla presenza di un distributore fino anche al periodo storico. Per quanto concerne invece il mercato dei lungometraggi l’Italia sta attraversando una fase di trasformazione che è iniziata nel 2015 con l’uscita di “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Quel film ha fatto capire ai produttori e ai distributori che il pubblico italiano è desideroso di pellicole che non siano le solite commedie o film autoriali, che è possibile pensare ad un cinema più internazionale. L’avvento di Netflix e Amazon Prime, ma anche di Disney + e della sua piattaforma Hulu, sta spingendo molti produttori a pensare storie che abbiano un appeal più internazionale, con un occhio al cinema di genere, e questo per i giovani autori rappresenta una grande opportunità per mettersi in mostra. 

Il dettaglio che ha reso possibile la realizzazione del tuo sogno è stato sicuramente l’aver trovato un solido produttore che scegliesse di investire sul tuo progetto. Come sei riuscito ad ottenere la sua conferma? Che iter hai voluto percorrere? 

Prima di trovare il produttore avevo messo in piedi una squadra di grandi talenti come Andrea Leanza, Laura Inglese, Gabriele De Palo, Federica Castelli, Barbara Anselmo e Salvo Ferrara. Le loro filmografie e il loro grande talento hanno permesso a questo progetto di suscitare l’interesse di Gianni Cannizzo, che come detto ha co firmato le ultime stesure della sceneggiatura. Gianni si è interessato al progetto e lo ha proposto a Daniele Occhipinti, consulente finanziario per varie società di produzione cinematografiche il quale vedendo le potenzialità del progetto e delle persone che vi erano dentro ha deciso di fondare la sua società di produzione, la Slinkset. Occhipinti ha avuto la grande capacità di attrarre un partner produttivo come l’Agidi di Paolo Guerra, società dietro tutte le pellicole di “Aldo Giovanni e Giacomo”, permettendo così al film di raccogliere i fondi necessari per essere realizzato. A questi soggetti produttivi si sono poi aggiunti vari investitori privati reperiti grazie all’aiuto di Giusto Lombardo. 

Quanto l’amore per ciò che fai ha avuto un impatto? Ci sono stati momenti in cui hai pensato di lasciare tutto e cambiare mestiere? Ci sono stati momenti di grande difficoltà? 

Se scegli di fare questo mestiere metti in conto che le difficoltà sono sempre dietro l’angolo. Personalmente non ho mai pensato di cambiare mestiere perché non potrei vivere senza il cinema ed è l’amore che nutro verso quest’arte che mi dà la giusta forza per non abbattermi mai. I momenti di sconforto ci sono, come in ogni lavoro, ma devono diventare uno stimolo e non una scusa per arrendersi. 

A proposito di quest’ultimo punto, è doveroso chiederti quanto la pandemia abbia influito nel proseguo dei lavori. 

La pandemia ha influenzato in particolare modo il lavoro sui visual effects e sul suono perché durante il primo lockdown gli uffici e gli studi sono stati costretti a chiudere. Questo ha influenzato inevitabilmente anche il lavoro della distribuzione perché il film è stato ufficialmente terminato ad ottobre invece che a maggio come originariamente previsto. 

Da siciliano a siciliano, da giovane a giovane: quanto la nostra terra offre opportunità nel settore cinematografico? Credi si debbano fare passi avanti? Hai delle proposte a riguardo? 

La Sicilia offre location uniche al mondo e tecnici di grande valore che non hanno nulla da invidiare a quelli romani. Considera che tutti i capi reparto del film sono siciliani che operano a Roma e ognuno di loro sta riscuotendo un importante successo basti pensare ad Andrea Leanza che nel 2020 ha ricevuto la sua prima candidatura al David di Donatello per “Il Primo Re” o a Laura Inglese con il suo lavoro ne “Il Traditore” di Marco Bellocchio. La costumista del film, Barbara Anselmo, proprio ora ha terminato il nuovo film di Joe Wright regista de “L’Ora più Buia” totalmente girato nella provincia di Noto. I passi in avanti andrebbero fatti nell’ambito della Film Commission siciliana affinché inizi a guardare a modelli vincenti come l’Apulia Film Commission. 

Sono sicuro tu stia già lavorando ad un nuovo progetto. Mi piacerebbe rilasciassi qualche spoiler. 

Sto lavorando allo sviluppo di un progetto molto interessante ma non posso dire nulla. Non appena tutti i tasselli andranno al loro posto tu sarai uno dei primi a cui lo rivelerò.

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