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Ecco il Mental coach, quando la testa conta più di tutto il resto.

Il calcio vive di attimi e di episodi, si sa. Un pensiero sbagliato, una distrazione o l’improvvisa paura di non farcela, possono far sì che una palla anzichè essere appoggiata in rete, finisca in curva. E’ ciò che deve aver pensato (e magari lo fa ancora) Patrik Schick tra gli altri. L’attaccante ceco in forza alla Roma, rivelazione ai tempi della Sampdoria nella stagione 2016-2017 (13 gol in 35 presenze), dopo aver vissuto un anno anonimo all’ombra del cupolone, (solo 5 reti in 43 partite in un anno e mezzo) cerca di rinascere.

Il giovane attaccante, per ritrovarsi ha deciso di affidarsi ad un mental coach come Jan Mühlfeit, uno dei più affermati nel suo ruolo. Autore di The Positive Leader, bestseller nell’ambito delle “strategie di successo per la leadership d’impresa, Mühlfeit si presenta come soggetto in grado di “aiutare gli individui, le organizzazioni e i paesi in giro per il mondo a sbloccare il loro potenziale umano”. Una definizione di se stesso non certo banale, quasi taumaturgica. D’altronde, sono sempre di più i calciatori che decidono di affidarsi a questi personaggi, che sembrano ormai rivestire un ruolo fondamentale nel mondo del calcio e dello sport in generale.

Un’altra figura di spicco nel settore, è Alberto Ferrarini, il mental coach che già dai tempi di Treviso si prese cura di Bonucci, finchè il difensore di Viterbo non acquistò grinta e qualità sul campo. Il rapporto tra i due toccò l’apice negli anni in cui Conte allenava la Juventus, poi arrivò la rottura durante i primi mesi al Milan del difensore, che pose fine ad un sodalizio decennale. “Troppa fama, ha toccato il fondo”, fu l’ultima stoccata del mental coach nei confronti del suo ex pupillo.

Ma Ferrarini è stato anche una figura di riferimento per Francesco Toldo, e non dimenticherà mai la soddisfazione provata durante i rigori nella semifinale dell’Europeo 2000 contro l’Olanda: “Fidati dell’istinto, è il tuo giorno. Li prendi tutti oppure sbagliano, ma sarai protagonista” ebbe a dirgli nei momenti concitati precedenti la lotteria dei rigori. Francesco Toldo tenne a mente quelle parole ed alla fine portò gli azzurri alla sfortunata finale contro la Francia..

Altro esempio, sono i casi di Mertens e Luis Alberto. E’ l’Autunno del 2016: prima del grave infortunio di Milik (che si ruppe il crociato), il belga sembrava essere di troppo nello scacchiere tattico di Sarri, relegato ad essere l’alternativa di Insigne e nulla più. Poi complice l’infortunio del centrvanti polacco, Mertens segnerà 34 gol in quella stagione. Nel Febbraio 2017, lo spagnolo della Lazio pensava addirittura di lasciare il calcio, ma anche grazie al lavoro di Simone Inzaghi, Luis Alberto diventerà decisivo ed uno degli inamovibili nell’undici titolare.

“Il segreto è nel lavoro”, dicono i due attaccanti all’unisono. Ma anche loro hanno un mental coach. Per lo spagnolo, si tratta di Juan Campillo, che avrebbe avuto un ruolo non di poco conto per impedire al suo atleta di mollare nel momento più delicato. Mentre se Dries si è fatto trovare pronto è anche grazie al particolare approccio di allenamento designato da Michel Bruyninckx. ‘Brain-centered learning’, come viene chiamato. Le neuroscienze applicate allo sport, lo stanno studiando con attenzione.

Mattia De Sciglio era invece “Ad un passo dalla depressione”.  Almeno, stando a quanto riferito da Stefano Tirelli dopo il loro primo incontro, nei mesi precedenti all’Europeo del 2016. Poi un paio di sedute a settimana, lavoro sulla mente e medicina cinese. A giugno l’allora terzino rossonero, sarà a sorpresa tra i migliori in campo negli ottavi disputati dalla nazionale azzurra contro la Spagna. Il periodo buio venne messo alle spalle e Tirelli avrà modo di raccontare i retroscena della risalita del terzino.

Stessa storia per un altro ex Milan, Riccardo Saponara: “Ai tempi della Primavera dell’Empoli avevo una sorta di blocco mentale che mi impediva di giocare come sapevo”. Il fantasista assunse Roberto Civitarese e le cose migliorarono. “Mi ha aiutato a concentrarmi solo sul lavoro, gli devo tanto”.

E’ altresì vero che oggi la figura dell’allenatore è cambiata rispetto al passato (come tutto il mondo del calcio del resto), e che essa giochi più un ruolo da psicologo che da tattico. Proprio nell’intervista post gara a seguito della vittoriosa gara del suo Milan contro la Spal, Gennaro Gattuso ha dichiarato di aver svolto un grande lavoro psicologico nei confronti di Higuain, simile a quanto fatto da Oronzo Canà nei confronti di Aristoteles. Quello era un film ironico, ma evidentemente la realtà non è molto diversa, se un calciatore che ha messo a segno quasi 300 reti in carriera, si lascia prendere dallo smarrimento per un periodo negativo.

Questi sono solo alcuni esempi che servono a spiegare il ruolo del mental coach, fino a poco tempo fa poco conosciuto o per meglio dire, operante in altri sport con minore visibilità rispetto al calcio. E i motivi sembrano ovvi, visto il mondo del calcio (ad alti livelli) è un mondo ovattato e molto più remunerativo rispetto alle altre discipline sportive. Ma evidentemente tutto ciò non basta a far si chè alcuni calciatori trovino le motivazioni per essere all’altezza dei loro conti in banca. D’altronde i compensi sono stabiliti dai contratti non dalle prestazioni e molti si cullano sugli allori.

Un’alternativa al ricorso al Mental coach, potrebbe essere la diversificazione dei contratti, con una parte fissa ed una sostanziosa legata alle prestazioni. Forse in questo modo, tanti calciatori ritroverebbero le motivazioni perdute. Del resto, se vanno loro in crisi, figuriamoci cosa dovrebbe fare una persona che non arriva alla fine del mese e stressata da impegni gravosi. Ma ai comuni mortali non sono permessi cali di tensione e non possono permettersi neppure un mental coach.