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Palermo, quando l’amore non ha colore: una psicologa eritrea ha ricevuto in affidamento un piccolo palermitano

Palermo da sempre è la città che più di ogni altra accoglie qualsiasi popolo, senza distinzione di razza, cultura e tradizione. Nella sua storia millenaria, chiunque sia arrivato qui, è diventato alla fine “figlio” o “figlia” di questa Terra, che continua a conservare, pur tra mille contraddizioni, un cuore grande.

Come quello di Yodit Abbraha, 46 anni, che vive a Palermo da quando aveva 11 anni e che ha deciso di diventare mamma in affido di un bambino palermitano per “provare a restituire alla terra che l’ha accolta la sua profonda esperienza di psicologa e mediatrice interculturale.”

La famiglia di Yodit Abbraha lasciò la città di Asmara, in Eritrea, negli anni settanta per ragioni politiche. Furono accolti a Valverde, nel Catanese, fra generosità e diffidenza,  poi Yodit si trasferì a Palermo:
Palermo l’ho amata subito – ha dichiarato in una recente intervista al quotidiano “La Repubblica” – è stata la città della mia indipendenza, dell’Università. Vivere qui significa vivere in tanti mondi contemporaneamente.”

Da venti anni anni Yodit, che è responsabile di uno Sprar, lavora nelle comunità come psicologa; nessuno meglio di lei può capire cosa significa per un bambino crescere senza una famiglia. Quando ha conosciuto il bimbo, che poi ha deciso di prendere in affido, il piccolo non era nemmeno capace di sorridere. Sette anni appena e metà della propria vita passata in comunità.
“Era assente e chiuso in sé stesso – ricorda Yodit – nei primi mesi non mi sono neanche accorta del colore dei suoi occhi. Un giorno ho scoperto che erano verde smeraldo ed a un certo punto è scattato un legame che cresce ogni giorno di più.”

Alla fine del 2018, Yodit decide di proporsi come madre affidataria e dopo un percorso lungo e complesso, fatto di burocrazia e continue riflessioni, diventa ufficialmente la prima mamma di origine straniera a prendere in affido un bimbo palermitano.
“Una scelta precisa – racconta – i bambini italiani sono quelli che rischiano più di tutti di rimanere in comunità. Ma avevo un grande dubbio: il piccolo avrebbe accettato una mamma nera? Così un giorno, poco dopo il nostro primo incontro, gli chiesi se avesse qualche curiosità su di me, sul colore della mia pelle. Eravamo al Giardino Inglese e avevo portato con me una cartina geografica, per mostrargli l’Asmara. Lui mi rispose di non avere nessuna curiosità. Compresi così che l’unica cosa che a lui interessava era di essere amato. Solo questo.”.

Il bambino ed i suoi fratelli erano finiti in una comunità molto presto, ma causa di un vissuto molto complesso, il bimbo ha difficoltà a relazionarsi con gli altri ed a vivere il contesto scolastico. Il Giudice ha dato a Yodit un percorso di 2 anni durante i quali il piccolo potrà rientrare nella sua famiglia d’origine o restare con Yodit, fino a quando l’affido potrebbe trasformarsi nel tempo in una vera e propria adozione.

Quando ho conosciuto il caso del bimbo – spiega Yodit – c’erano tutti i presupposti per rifiutare. Le problematiche erano davvero tante, ma soprattutto mi sentivo inadeguata. I primi tempi, a fine giornata, piangevo, la mia paura più grande era di non essere all’altezza. Anche il mondo esterno non aiuta. Spesso la gente lo guarda come fosse un bambino diverso, ma non sono mai tornata indietro sui miei passi. La mia vita è cambiata, ma mentre io ho fatto consapevolmente questa scelta, per il bambino è più faticoso, vive in un mondo diviso fra due famiglie e racconta a tutti di avere due mamme. Un giorno mi ha chiesto perché sono nera, gli ho raccontato dell’Africa, degli animali e della natura. Per me è un rapporto senza scadenza. Solo il futuro ci darà le risposte. Ma l’esperienza dell’affido è unica, quello che si riceve è molto più di quello che si dà.